Walter Reder, tornato in Austria nel 1985, affermò di non avere rimorsi per i crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale. Sebbene avesse presentato una domanda di grazia nel 1967, dichiarando un presunto pentimento per le stragi del 1944, sostenne che fosse solo un’iniziativa del suo avvocato. Reder fu il responsabile della strage di Marzabotto, avvenuta il 29 settembre 1944, un massacro che portò all’uccisione di 1.830 civili, inclusi bambini e donne incinte, lasciando una ferita profonda nei ricordi storici. Nei suoi rapporti, Reder mascherava la brutalità dell’operazione, riferendo in modo asettico i dati militari e minimizzando l’orrore dei crimini.
La “marcia della morte” di Reder portò all’uccisione indiscriminata di chiunque fosse considerato un nemico, con la partecipazione di truppe SS e fascisti locali. Questo eccidio si inseriva nella strategia di rappresaglia del comandante tedesco Kesselring, che autorizzava l’uso di ostaggi e azioni punitive contro la popolazione civile nei territori occupati. Nonostante la gravità delle atrocità, le autorità fasciste negavano la verità, definendo le informazioni come “fantasie” e giustificando le loro azioni in nome della guerra.
Dopo la guerra, Reder fu processato in Italia e condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità, ma i suoi tentativi di ottenere la grazia furono sistematicamente respinti. La condanna del dovere morale di affrontare i crimini fu esemplificata dalle parole di Simon Wiesenthal, che sottolineò la miseria della perpetrazione del nazismo in Italia. Reder, liberato in Austria, visse in libertà fino alla sua morte nel 1991, senza mai mostrare reale pentimento per le atrocità commesse.
Le indagini sui crimini di guerra continuarono anche anni dopo, con altri processi intentati nel 2007 contro membri delle SS. Reder e i suoi complici rappresentano non solo la brutalità della guerra, ma anche il difficile rapporto con la memoria storica e la giustizia post-bellica in Europa. L’eco di Marzabotto e delle sue vittime continua a risuonare, richiamando l’attenzione sui crimini di guerra e sulla necessità di una memoria condivisa.